JACOPO BELLONI, MARINA CAVADINI, GUIDO SBATTELLA { VS }
Milano 14.05.2015
Testo critico di Giulia Della Valle
Guido Sbattella VS Jacopo Belloni.
I due artisti si scontreranno corpo a corpo nelle loro armature fatte a mano, inscenando le dinamiche tipiche del dialogo, di un confronto in cui entità definite si sgretolano e ricompongono, modificandosi in modo imprevedibile.
L’azione si svolgerà sull’installazione di Marina Cavadini Marry-go-round, ancora una volta una forma definita che va a sfaldarsi, polverosa, sotto i piedi dei due cavalieri combattenti.
Non finisce qui: grazie a un pad, Edoardo Segato genererà un’improvvisazione sonora nella sala del Void.
GIULIA DELLAVALLE: Ogni elemento di questo lavoro vuole far crollare una struttura, lo scontro in sé (condotto con armature artigianali), la dissoluzione dell’opera di Marina e l’improvvisazione sonora.
Cosa vi interessa di questo processo?
GUIDO SBATTELLA: Tutti gli elementi della mostra si scontreranno fra loro, trasformando la loro struttura iniziale in qualcosa d'altro: qualsiasi processo formativo deriva in fondo da una decostruzione che permette di “ri-creare”.
JACOPO BELLONI: La formazione avviene quando ci si scopre diversi dall’altro. Conflitto è una parola curiosa, sonora più precisamente: vuol dire “scuotersi assieme”. Per esempio, le vibrazioni che saranno la base per gli altri rumori della performance si rifanno al fenomeno dei battimenti: due frequenze vicine ma diverse, creano un’interferenza, mentre se fossero uguali, si annullerebbero.
GD: VERSUS è un incontro/scontro tra personalità diverse e nasce da una moltitudine di dialoghi, quello tra voi artisti e quello con un musicista come Edoardo Segato.
Come si combinano le “regole del gioco” entro le quali agite con l’improvvisazione?
MARINA CAVADINI: Il dialogo tra noi è iniziato in Accademia, dove ci siamo conosciuti, incontrati o forse dovrei dire “scontrati” per caso.
JB: Lo scontro che però vedrete a Void è teatro, il pubblico assisterà a una scena che ha dietro di sé un copione e che mette in chiaro fin da subito il suo esito. È l'imprevedibilità interna che più ci interessa. Inizialmente prevarranno momenti di silenzio, poi, round dopo round, il rumore aumenterà e prenderà il via una sorta d’inseguimento tra noi e i suoni di Edoardo, come un “giocare a prendersi”. Ogni strategia sarà vana e avrà luogo un’improvvisazione collettiva che si prospetta faticosa (ci rinfrescheremo con un cocktail speciale, preparato per l’occasione).
GD: Una domanda per Marina. Cosa rimarrà della tua installazione dopo lo scontro? Che importanza hanno per te dissoluzione e temporaneità?
MC: Nella condizione di mobilità in cui mi trovo oggi, mi è difficile pensare di realizzare qualcosa d’ingombrante. Marry-Go-Round rimarrà attaccato sotto le suole, negli angoli della sala del Void, nelle fughe tra le piastrelle… L’accento si pone sull’azione più che sul risultato. Anche il titolo del mio lavoro ha a che fare con il movimento. Il rapporto che s’instaura tra opera e il tempo della sua fruizione, in questo caso un’unica notte, è un aspetto che tengo sempre in considerazione. Il mio intervento rispetta i tempi di confronto con il pubblico, quindi è time-based oltre che site-specific.
GD: Insomma, il “solco” (uno dei tanti significati che il dizionario Olivetti dà di “versus”) del conflitto messo in scena, la sua traccia effimera.
Una domanda ai due avversari: lo scontrò che vi vedrà protagonisti sarà improvvisazione tout court, un cocktail di impulso e strategia condotto passo per passo, momento per momento.
Qualcuno avrà la meglio e ci sarà una sopraffazione?
GS: Non ci sarà una sopraffazione. Se ciò avvenisse, si instaurerebbe una situazione di violenza: non risuoneremmo più insieme, ma uno annullerebbe l’altro eliminando la possibilità di uno scambio. È una condizione molto diffusa nella pratica marziale. Quando ci si allena con un compagno, non si deve pensare di mandarlo a KO ma dedicargli un’attenzione, riflettere sulle mosse e la propria posizione.
GD: In sostanza, mi pare di aver capito che è solo stando con l’altro che ci si altera.
In che misura l’artista si può e si deve alterare?
GS: L’artista, come ogni altro individuo, influenza ed è influenzato continuamente. È vedendo il lavoro degli altri che vengono a galla, inaspettatamente, faccie prima celate del proprio lavoro. L’imprevedibilità sta nell’altro ma può essere colta solo se si è disposti al confronto.
GD: Tutto questo avviene all’interno di un club.
JB: Pensare questo progetto ci ha dato la possibilità di elaborare un travestimento che mai sarebbe nato in un altro luogo. Questo “giocare a prendersi” tra noi e i suoni trova un contesto ideale tra le luci e le ombre di una discoteca.
MC: Merry-go-round diventa la piattaforma rotante sulla quale i due cavalieri combattono.
Le nostre sensibilità sono diverse, per questo il dialogo è stato così interessante.
I due artisti si scontreranno corpo a corpo nelle loro armature fatte a mano, inscenando le dinamiche tipiche del dialogo, di un confronto in cui entità definite si sgretolano e ricompongono, modificandosi in modo imprevedibile.
L’azione si svolgerà sull’installazione di Marina Cavadini Marry-go-round, ancora una volta una forma definita che va a sfaldarsi, polverosa, sotto i piedi dei due cavalieri combattenti.
Non finisce qui: grazie a un pad, Edoardo Segato genererà un’improvvisazione sonora nella sala del Void.
GIULIA DELLAVALLE: Ogni elemento di questo lavoro vuole far crollare una struttura, lo scontro in sé (condotto con armature artigianali), la dissoluzione dell’opera di Marina e l’improvvisazione sonora.
Cosa vi interessa di questo processo?
GUIDO SBATTELLA: Tutti gli elementi della mostra si scontreranno fra loro, trasformando la loro struttura iniziale in qualcosa d'altro: qualsiasi processo formativo deriva in fondo da una decostruzione che permette di “ri-creare”.
JACOPO BELLONI: La formazione avviene quando ci si scopre diversi dall’altro. Conflitto è una parola curiosa, sonora più precisamente: vuol dire “scuotersi assieme”. Per esempio, le vibrazioni che saranno la base per gli altri rumori della performance si rifanno al fenomeno dei battimenti: due frequenze vicine ma diverse, creano un’interferenza, mentre se fossero uguali, si annullerebbero.
GD: VERSUS è un incontro/scontro tra personalità diverse e nasce da una moltitudine di dialoghi, quello tra voi artisti e quello con un musicista come Edoardo Segato.
Come si combinano le “regole del gioco” entro le quali agite con l’improvvisazione?
MARINA CAVADINI: Il dialogo tra noi è iniziato in Accademia, dove ci siamo conosciuti, incontrati o forse dovrei dire “scontrati” per caso.
JB: Lo scontro che però vedrete a Void è teatro, il pubblico assisterà a una scena che ha dietro di sé un copione e che mette in chiaro fin da subito il suo esito. È l'imprevedibilità interna che più ci interessa. Inizialmente prevarranno momenti di silenzio, poi, round dopo round, il rumore aumenterà e prenderà il via una sorta d’inseguimento tra noi e i suoni di Edoardo, come un “giocare a prendersi”. Ogni strategia sarà vana e avrà luogo un’improvvisazione collettiva che si prospetta faticosa (ci rinfrescheremo con un cocktail speciale, preparato per l’occasione).
GD: Una domanda per Marina. Cosa rimarrà della tua installazione dopo lo scontro? Che importanza hanno per te dissoluzione e temporaneità?
MC: Nella condizione di mobilità in cui mi trovo oggi, mi è difficile pensare di realizzare qualcosa d’ingombrante. Marry-Go-Round rimarrà attaccato sotto le suole, negli angoli della sala del Void, nelle fughe tra le piastrelle… L’accento si pone sull’azione più che sul risultato. Anche il titolo del mio lavoro ha a che fare con il movimento. Il rapporto che s’instaura tra opera e il tempo della sua fruizione, in questo caso un’unica notte, è un aspetto che tengo sempre in considerazione. Il mio intervento rispetta i tempi di confronto con il pubblico, quindi è time-based oltre che site-specific.
GD: Insomma, il “solco” (uno dei tanti significati che il dizionario Olivetti dà di “versus”) del conflitto messo in scena, la sua traccia effimera.
Una domanda ai due avversari: lo scontrò che vi vedrà protagonisti sarà improvvisazione tout court, un cocktail di impulso e strategia condotto passo per passo, momento per momento.
Qualcuno avrà la meglio e ci sarà una sopraffazione?
GS: Non ci sarà una sopraffazione. Se ciò avvenisse, si instaurerebbe una situazione di violenza: non risuoneremmo più insieme, ma uno annullerebbe l’altro eliminando la possibilità di uno scambio. È una condizione molto diffusa nella pratica marziale. Quando ci si allena con un compagno, non si deve pensare di mandarlo a KO ma dedicargli un’attenzione, riflettere sulle mosse e la propria posizione.
GD: In sostanza, mi pare di aver capito che è solo stando con l’altro che ci si altera.
In che misura l’artista si può e si deve alterare?
GS: L’artista, come ogni altro individuo, influenza ed è influenzato continuamente. È vedendo il lavoro degli altri che vengono a galla, inaspettatamente, faccie prima celate del proprio lavoro. L’imprevedibilità sta nell’altro ma può essere colta solo se si è disposti al confronto.
GD: Tutto questo avviene all’interno di un club.
JB: Pensare questo progetto ci ha dato la possibilità di elaborare un travestimento che mai sarebbe nato in un altro luogo. Questo “giocare a prendersi” tra noi e i suoni trova un contesto ideale tra le luci e le ombre di una discoteca.
MC: Merry-go-round diventa la piattaforma rotante sulla quale i due cavalieri combattono.
Le nostre sensibilità sono diverse, per questo il dialogo è stato così interessante.
Un ringraziamento a:
Edoardo Segato (Sound Design)
Giulia Di Dio (Cocktail)
Edoardo Segato (Sound Design)
Giulia Di Dio (Cocktail)
MARCO SECONDIN { CI SI VEDE Lì }
Milano 23.04.2015
Testo critico di Lucrezia Galeotti
Si ha la necessità di riconoscere che l’immagine in questo momento ridefinisce il limite del mondo, impossibilità di una sola effettiva visione e di un esclusivo sguardo. Ricominciare a ridefinire il rapporto che oscilla tra un’immagine e un’altra cercando di trovare un punto d’incidenza tra parola e sguardo, creando un corpo scrittura per figurazioni. In qualche modo, riflettere su una possibile metodologia del guardare, definendone i canoni e dislocando i limiti, significa dover prendere in considerazione il ritmo dell’iconografia cui noi siamo sottoposti, aggiungendo e sottraendo da ciò che costituisce la nostra epistemologia.
La figurazione fissa una nuova metrica della sintassi percettiva, una forza di molteplici e frammentati punti di vista, che aiutano a comporre, ad accarezzare e a plasmare forme e scenari.
È proprio il silenzio dell’animale il garante di diversità, la sua esclusione dall’uomo. Attraverso l’incomunicabilità s’innescano strane evoluzioni e rielaborazioni non sense: la sala, la mostra, sarà luogo di passaggio di un particolare sconosciuto. Un acromate, soggetto privo di una sensibilità cromatica regolare, vestirà il compito di fungere da connettore con un mondo differentemente organizzato, creando concretamente un file rouge tra l’animale e il mondo della rappresentazione. Ciò a cui si assisterà sarà un gioco di sguardi al buio.
Per gentile concessione dell’ artista Guido Sbattella
Untitled / stampa fotografica applicata su MDF /diametro 60 cm / 2012
La figurazione fissa una nuova metrica della sintassi percettiva, una forza di molteplici e frammentati punti di vista, che aiutano a comporre, ad accarezzare e a plasmare forme e scenari.
È proprio il silenzio dell’animale il garante di diversità, la sua esclusione dall’uomo. Attraverso l’incomunicabilità s’innescano strane evoluzioni e rielaborazioni non sense: la sala, la mostra, sarà luogo di passaggio di un particolare sconosciuto. Un acromate, soggetto privo di una sensibilità cromatica regolare, vestirà il compito di fungere da connettore con un mondo differentemente organizzato, creando concretamente un file rouge tra l’animale e il mondo della rappresentazione. Ciò a cui si assisterà sarà un gioco di sguardi al buio.
Per gentile concessione dell’ artista Guido Sbattella
Untitled / stampa fotografica applicata su MDF /diametro 60 cm / 2012
NICOL Ò TEDESCHI { UNA STORIA DI LAGO }
Milano 09.04.2015
Testo critico di Lucrezia Galeotti
La grammatica e la struttura diventano oggetto, membra di logiche, pezzi ed elementi assorbono necessità di operare una selezione. Un movimento oscillatorio accompagna la nostra libera associazione dʼimmagini e conoscenza. Il modello narrativo è il disvelamento del pretesto, mostrare dunque diventa la funzione primaria dellʼoggetto. La fascinazione della molteplicità, della quantità e della diversità, fa spazio a un desiderio incessante: catalogazione.
Il progetto parte dal concetto di molteplicità, quantità e diversità dei contenuti e della conseguente necessità di operare una selezione. Parte da un gruppo di oggetti trovati e attraverso, o a partire, da questo gruppo produce una ulteriore serie di oggetti. L'operazione di scegliere per disvelare, piuttosto che creare per mostrare diventa quindi fondamentale nell'epoca dell'informazione.
Scivolare da una selezione ondivaga creata da frammenti. Il mezzo stesso applica una selezione da cui noi subdolamente siamo affascinati.
Chi garantisce per questo setaccio estetico potenziale? Quanto il mezzo diventa il focus fascinoso e oggetto stesso di contemplazione?
Come un Esperanto Digitale, si formulano nuovi codici e sintassi di principi estetici, una miriade di frattali numerici entrano nel nostro operare selezione. Una vasta nuova banca dati estetica celante segreti, collegamenti che solo tu hai trovato e cui pensi di aver attinto, senza una reale e approfondita comprensione, influenzano il nostro modo di archiviare e assimilare. Internet può appiattire radicalmente gerarchie di conoscenza, ma costruisce anche piccoli fossati tribali inglobanti, culture difficilmente accessibili. La soglia di comprensione scivola da una conoscenza visiva a una conoscenza epistemologica, rielaborando e ricostruendo tramite un percorso di esperienza virtuale, producendo unʼeventuale miriade di risultati deorbitati da questo.
Raccontare un evento, un pretesto narrativo, una storia banale, Una Storia di Lago.
“Bureau for Fictional Art” (Dipartimento per lʼArte Narrativa/fittizia), contenitore massimo e garante di memorie visive, testimonianze inconfutabili, moduli che in precedenza compilati, certifica qualità e quantità di reperti visivi, i vuoti mnemonici (reali o apparenti) sono lì per essere colmati dagli spettatori che, come in un gioco associativo, incasellano la propria struttura narrativa.
Unʼestetica capace di generarsi o di attingere?
Lʼimportanza estrema di prelevare, selezionare e arbitrariamente esercitare potere decisionale. Noi stessi custodi di ricordi, combattuti dal divenire, essere generativi, passivamente attratti da una banca dati seriale.
Il progetto parte dal concetto di molteplicità, quantità e diversità dei contenuti e della conseguente necessità di operare una selezione. Parte da un gruppo di oggetti trovati e attraverso, o a partire, da questo gruppo produce una ulteriore serie di oggetti. L'operazione di scegliere per disvelare, piuttosto che creare per mostrare diventa quindi fondamentale nell'epoca dell'informazione.
Scivolare da una selezione ondivaga creata da frammenti. Il mezzo stesso applica una selezione da cui noi subdolamente siamo affascinati.
Chi garantisce per questo setaccio estetico potenziale? Quanto il mezzo diventa il focus fascinoso e oggetto stesso di contemplazione?
Come un Esperanto Digitale, si formulano nuovi codici e sintassi di principi estetici, una miriade di frattali numerici entrano nel nostro operare selezione. Una vasta nuova banca dati estetica celante segreti, collegamenti che solo tu hai trovato e cui pensi di aver attinto, senza una reale e approfondita comprensione, influenzano il nostro modo di archiviare e assimilare. Internet può appiattire radicalmente gerarchie di conoscenza, ma costruisce anche piccoli fossati tribali inglobanti, culture difficilmente accessibili. La soglia di comprensione scivola da una conoscenza visiva a una conoscenza epistemologica, rielaborando e ricostruendo tramite un percorso di esperienza virtuale, producendo unʼeventuale miriade di risultati deorbitati da questo.
Raccontare un evento, un pretesto narrativo, una storia banale, Una Storia di Lago.
“Bureau for Fictional Art” (Dipartimento per lʼArte Narrativa/fittizia), contenitore massimo e garante di memorie visive, testimonianze inconfutabili, moduli che in precedenza compilati, certifica qualità e quantità di reperti visivi, i vuoti mnemonici (reali o apparenti) sono lì per essere colmati dagli spettatori che, come in un gioco associativo, incasellano la propria struttura narrativa.
Unʼestetica capace di generarsi o di attingere?
Lʼimportanza estrema di prelevare, selezionare e arbitrariamente esercitare potere decisionale. Noi stessi custodi di ricordi, combattuti dal divenire, essere generativi, passivamente attratti da una banca dati seriale.
LUCA BOSANI { THE DIFFERENCE BETWEEN STANDING, SITTING AND LAYING }
Milano 26.03.2015
Testo critico di Luca Loreti
Il POV (acronimo di Point of View) è una tecnica di ripresa cinematografica, molto utilizzata nei film per adulti, che consiste nell’effettuare inquadrature e riprese dal punto di vista del protagonista maschile da parte di operatori posizionati dietro o sopra la sua testa. Tale tecnica è diventata essa stessa sinonimo del genere pornografico che la adopera, realizzato senza trama, e spesso in presa diretta.
Si girano in POV soprattutto i film di genere Gonzo, nei quali le riprese sono effettuate dall’attore stesso. Il volto dell’attore non viene inquadrato, se non nelle fasi preliminari della scena, come ad esempio durante le interviste iniziali, tipiche di tal genere.
Il genere più adatto a questo tipo di riprese è l’Oral, soprattutto nel sottogenere Swallow, tanto che da molti POV ne viene quasi considerato un sinonimo. Esistono in realtà anche serie POV anal (come Anal POV di Jules Jordan Video) e Straight ma qui l’acronimo POV si rifà agli anni ‘90 quando nacque come Prostitutes On Video, una serie Gonzo in cui il protagonista maschile riprendeva con una piccola handycam attrici sconosciute e non professioniste, presentate come «prostitute». Il film che dette origine e nome al genere, come viene inteso oggi, è POV del 2000, prodotto da Dane Productions, primo di una serie di quattro. Seguirono le serie Perverted POV, Peter North’s POV, POV Casting Couch, POV Pervert, Jack’s POV, POV Fantasy. (nota: Wikipedia.org)
Devo farmi una doccia...
Se mi depilo? Apprezzerà o lo troverà ridicolo? Forse giusto una spuntatina...
Non posso andare in bicicletta...
Non posso bere più di due drink...
Devo mettere il preservativo vicino al letto...
Forse è meglio se cancello un po’ di cronologia da Chrome...
E se poi non ci sta?
Non devo svegliare nessuno quando torno a casa... E domani mattina?
Mi servirà del lubrificante?
In Jersey Shore dopo averlo fatto le chiamano un taxi e le mandano a casa...sarà scortese?
Che malattie si possono prendere leccando una vagina? Mi devo informare di più...
Luce spenta o luce accesa?
La guida di Vice al sesso anale sarà attendibile?
Preferirà stare sopra?
Quanti drink le devo offrire? Devo prelevare...
Se mi guardo un porno prima di uscire?
Devo farmi una doccia...
E se poi andiamo a casa sua?
Devo tagliarmi la barba? Alla mia ex piaceva...
Probabilmente quando ballo sembro un coglione... Dovevo fare qualche prova allo specchio…
Se è con un'amica? Magari riesco a portarle a casa entrambe...
Lo dico sempre che devo pulire la macchina... A quest’ora è già tutto chiuso...
Con quante ragazze posso provarci prima di sembrare patetico?
Il terzo drink non mi farà poi tutto questo effetto...
Devo assolutamente farmi una doccia...
Si girano in POV soprattutto i film di genere Gonzo, nei quali le riprese sono effettuate dall’attore stesso. Il volto dell’attore non viene inquadrato, se non nelle fasi preliminari della scena, come ad esempio durante le interviste iniziali, tipiche di tal genere.
Il genere più adatto a questo tipo di riprese è l’Oral, soprattutto nel sottogenere Swallow, tanto che da molti POV ne viene quasi considerato un sinonimo. Esistono in realtà anche serie POV anal (come Anal POV di Jules Jordan Video) e Straight ma qui l’acronimo POV si rifà agli anni ‘90 quando nacque come Prostitutes On Video, una serie Gonzo in cui il protagonista maschile riprendeva con una piccola handycam attrici sconosciute e non professioniste, presentate come «prostitute». Il film che dette origine e nome al genere, come viene inteso oggi, è POV del 2000, prodotto da Dane Productions, primo di una serie di quattro. Seguirono le serie Perverted POV, Peter North’s POV, POV Casting Couch, POV Pervert, Jack’s POV, POV Fantasy. (nota: Wikipedia.org)
Devo farmi una doccia...
Se mi depilo? Apprezzerà o lo troverà ridicolo? Forse giusto una spuntatina...
Non posso andare in bicicletta...
Non posso bere più di due drink...
Devo mettere il preservativo vicino al letto...
Forse è meglio se cancello un po’ di cronologia da Chrome...
E se poi non ci sta?
Non devo svegliare nessuno quando torno a casa... E domani mattina?
Mi servirà del lubrificante?
In Jersey Shore dopo averlo fatto le chiamano un taxi e le mandano a casa...sarà scortese?
Che malattie si possono prendere leccando una vagina? Mi devo informare di più...
Luce spenta o luce accesa?
La guida di Vice al sesso anale sarà attendibile?
Preferirà stare sopra?
Quanti drink le devo offrire? Devo prelevare...
Se mi guardo un porno prima di uscire?
Devo farmi una doccia...
E se poi andiamo a casa sua?
Devo tagliarmi la barba? Alla mia ex piaceva...
Probabilmente quando ballo sembro un coglione... Dovevo fare qualche prova allo specchio…
Se è con un'amica? Magari riesco a portarle a casa entrambe...
Lo dico sempre che devo pulire la macchina... A quest’ora è già tutto chiuso...
Con quante ragazze posso provarci prima di sembrare patetico?
Il terzo drink non mi farà poi tutto questo effetto...
Devo assolutamente farmi una doccia...
TEA ANDREOLETTI { TEMPOm = [(sala1 : 4 ore) = (sala2 : 80 anni)] }
Milano 12.03.2015
Testo critico di Francesca Marani
“Un essere vivente s’identifica con una certa quantità di materia organizzata, limitata nel tempo e nello spazio.”
Edoardo Boncinelli, biologo e professore universitario.
Siete appena entrati nello spazio Void.
Siete appena entrati nel cuore pulsante dellʼEssere Vivente.
Chi è lʼEssere Vivente? Un animale o forse una persona non si sa.
Lʼimportante è che ora siate al sicuro, dentro.
Siete protetti dalle pareti dei suoi atrii comunicanti che respirano a ritmi differenti.
Non sono sincronizzati, non si muovono allʼunisono, si guardano ma senza parlarsi.
E voi siete il flusso che trasmigra placidamente da una parte allʼaltra.
Il primo atrio è caotico, è vibrante, è frenetico: il battito accelerato vʼinebria, la musica incalza, non ci sarà tregua per almeno quattro ore.
Sì, quattro ore, questo è il tempo prestabilito della serata che avete scelto di vivere, questa notte al centro del cuore pulsante dellʼEssere Vivente.
La fine è segnata, vi attende, e lo sapevate già, prima ancora che lʼevento avesse inizio, come gli spettatori di un film che diligenti attendono la proiezione di un lungometraggio della durata di centoventi minuti.
Ebbene il vostro film avrà fine tra duecentoquaranta minuti.
Non temete. Non abbiate paura non tutto, è prescritto.
Cʼè un altro atrio che vi attende.
Eʼ diverso. Qui la musica non è assordante.
Qui il ritmo è cambiato, ora è più lento, si è fatto denso.
Il tempo che si sperimenta in questo spazio è quello dilatato dellʼesistenza, il tempo trasformato dellʼatrio che avete appena superato: le quattro ore sono state dilatate in ottantʼanni vissuti in una notte al centro del cuore pulsante dellʼEssere Vivente.
Eʼ la stessa musica di prima, solo non la riconoscete.
Lasciatevi cullare da questi suoni stranianti: le pareti rassicuranti dellʼatrio si sgretoleranno lasciando il posto a un luogo senza confini.
Non ci saranno più limiti o imposizioni.
Questa notte non finirà.
Edoardo Boncinelli, biologo e professore universitario.
Siete appena entrati nello spazio Void.
Siete appena entrati nel cuore pulsante dellʼEssere Vivente.
Chi è lʼEssere Vivente? Un animale o forse una persona non si sa.
Lʼimportante è che ora siate al sicuro, dentro.
Siete protetti dalle pareti dei suoi atrii comunicanti che respirano a ritmi differenti.
Non sono sincronizzati, non si muovono allʼunisono, si guardano ma senza parlarsi.
E voi siete il flusso che trasmigra placidamente da una parte allʼaltra.
Il primo atrio è caotico, è vibrante, è frenetico: il battito accelerato vʼinebria, la musica incalza, non ci sarà tregua per almeno quattro ore.
Sì, quattro ore, questo è il tempo prestabilito della serata che avete scelto di vivere, questa notte al centro del cuore pulsante dellʼEssere Vivente.
La fine è segnata, vi attende, e lo sapevate già, prima ancora che lʼevento avesse inizio, come gli spettatori di un film che diligenti attendono la proiezione di un lungometraggio della durata di centoventi minuti.
Ebbene il vostro film avrà fine tra duecentoquaranta minuti.
Non temete. Non abbiate paura non tutto, è prescritto.
Cʼè un altro atrio che vi attende.
Eʼ diverso. Qui la musica non è assordante.
Qui il ritmo è cambiato, ora è più lento, si è fatto denso.
Il tempo che si sperimenta in questo spazio è quello dilatato dellʼesistenza, il tempo trasformato dellʼatrio che avete appena superato: le quattro ore sono state dilatate in ottantʼanni vissuti in una notte al centro del cuore pulsante dellʼEssere Vivente.
Eʼ la stessa musica di prima, solo non la riconoscete.
Lasciatevi cullare da questi suoni stranianti: le pareti rassicuranti dellʼatrio si sgretoleranno lasciando il posto a un luogo senza confini.
Non ci saranno più limiti o imposizioni.
Questa notte non finirà.
LUCIA CRISTIANI { THE SHARK'S LINE }
Milano 26.02.2015
Testo critico di Rebecca Di Berardino
The Shark’s Line o Come nutrire empatia per lo squalo.
Esiste una linea incredibilmente sottile tra la realtà e le odierne velleità: l’unica cosa che divide un essere umano dall’altro è l’immaginario legato ad esse.
L’esotismo, forma di velleità per eccellenza, è un tema di indagine fondante nella poetica di Lucia Cristiani.
Nell’immaginario esotico non c’è spazio per nulla di sgradevole o di sgradevole derivazione. Quando il nostro immaginario è sconvolto dal ritorno del reale definiamo l’episodio traumatico o perturbante, ed è proprio su questa tematica che si fonda la mostra The Shark’s Line dove immagini pulite, luccicanti e ludiche hanno un’estetica ostile alla loro origine.
John Berger ha sottolineato più volte che il nostro modo di vedere, opera d’arte o no, è meno naturale di quello che crediamo. Una grossa fetta di quello che vediamo dipende dalle nostre abitudini e convenzioni che, una volta stravolte, non solo arricchiscono la nostra esperienza estetica ma anche lo sguardo dato sul quotidiano.
Quel sottile tappeto dorato, appoggiato al suolo, rimanderà i più fortunati a immagini di luce e benessere ignari dei ben più numerosi sfortunati che ne sono stati avvolti in caso di emergenza.
I primi calpestandolo, saranno irradiati da una luce calda e splendente; i secondi, venendone avvolti cercheranno salvezza.
Questo sfaldamento d’immaginario ci insegna qualcosa di incredibilmente duro.
Impersoniamo la peggiore forma di antagonismo ma ce ne rendiamo conto solo dopo aver considerato per la prima volta la controparte.
Ora, per la prima volta consci di essere il bastone tra le ruote del protagonista ‘tipo’ di un romanzo di formazione, le onde dorate che calpestiamo non ci abbracciano più ma puntano il dito contro la nostra incoscienza e sommarietà .
Superficialità, di questo si tratta. La superficie del mare che divide la vita dalla morte, la superficie dello schermo, che ci divide dalle immagini spietate dei protagonisti, che non ce l’hanno fatta, a quelle splendide di meraviglie che forse non vedremo mai.
Ma qualcosa accomuna noi e i migranti libanesi: un desiderio che verrà deluso.
Nella fuga dagli opposti delle nostre condizioni (troppo lavoro vs nessun lavoro) ci troviamo entrambi nello stesso punto : in mare.
Nello smarrimento del sogno esotico ci sentiamo in dovere di festeggiare il ritorno del reale.
Esiste una linea incredibilmente sottile tra la realtà e le odierne velleità: l’unica cosa che divide un essere umano dall’altro è l’immaginario legato ad esse.
L’esotismo, forma di velleità per eccellenza, è un tema di indagine fondante nella poetica di Lucia Cristiani.
Nell’immaginario esotico non c’è spazio per nulla di sgradevole o di sgradevole derivazione. Quando il nostro immaginario è sconvolto dal ritorno del reale definiamo l’episodio traumatico o perturbante, ed è proprio su questa tematica che si fonda la mostra The Shark’s Line dove immagini pulite, luccicanti e ludiche hanno un’estetica ostile alla loro origine.
John Berger ha sottolineato più volte che il nostro modo di vedere, opera d’arte o no, è meno naturale di quello che crediamo. Una grossa fetta di quello che vediamo dipende dalle nostre abitudini e convenzioni che, una volta stravolte, non solo arricchiscono la nostra esperienza estetica ma anche lo sguardo dato sul quotidiano.
Quel sottile tappeto dorato, appoggiato al suolo, rimanderà i più fortunati a immagini di luce e benessere ignari dei ben più numerosi sfortunati che ne sono stati avvolti in caso di emergenza.
I primi calpestandolo, saranno irradiati da una luce calda e splendente; i secondi, venendone avvolti cercheranno salvezza.
Questo sfaldamento d’immaginario ci insegna qualcosa di incredibilmente duro.
Impersoniamo la peggiore forma di antagonismo ma ce ne rendiamo conto solo dopo aver considerato per la prima volta la controparte.
Ora, per la prima volta consci di essere il bastone tra le ruote del protagonista ‘tipo’ di un romanzo di formazione, le onde dorate che calpestiamo non ci abbracciano più ma puntano il dito contro la nostra incoscienza e sommarietà .
Superficialità, di questo si tratta. La superficie del mare che divide la vita dalla morte, la superficie dello schermo, che ci divide dalle immagini spietate dei protagonisti, che non ce l’hanno fatta, a quelle splendide di meraviglie che forse non vedremo mai.
Ma qualcosa accomuna noi e i migranti libanesi: un desiderio che verrà deluso.
Nella fuga dagli opposti delle nostre condizioni (troppo lavoro vs nessun lavoro) ci troviamo entrambi nello stesso punto : in mare.
Nello smarrimento del sogno esotico ci sentiamo in dovere di festeggiare il ritorno del reale.
NICOLE COLOMBO { TREASURE TOWN }
Milano 22.01.2015
Testo critico di Valeria Baudo
''Hai delle aspettative riguardo questo tesoro'': probabilmente è questo che state leggendo -o che presto leggerete- sul manoscritto alla vostra sinistra, e l'idea su cui si articola Treasure Town, la mostra di Nicole Colombo, sta proprio qui: la ricerca di un tesoro di cui abbiamo solo sentito favoleggiare, ma il cui ritrovamento viene ostacolato da sofferenza e sacrifici, sempre poi che il ritrovamento avvenga davvero. Nicole riflette sull'antinomia che si crea in queste caccie al tesoro, in cui la ricchezza promessa contrasta con la fatica realmente provata: eppure “l'idea di riuscire ad ottenere l'oggetto del desiderio prevarica qualsiasi paura o clemenza”.
Superato il corridoio (nel quale si può assistere alla proiezione di Tekkonkinkreet, il cartone animato da cui il titolo della mostra è stato tratto) lo spettatore si trova di fronte alla prima opera: una massiccia e misteriosa struttura la cui natura non viene -e non sarà- rivelata. La seconda installazione, anch'essa totemica, fronteggia la prima e si caratterizza per l'apparente leggerezza del materiale e per la presenza di un'immagine, di difficile interpretazione, ottenuta attraverso la sgranatura dei pixel e la cancellazione di alcuni codici: una ''memoria visiva'' che richiama alla mente qualcosa di con
Locata sopra il palco della sala e raggiungibile solo dopo aver compiuto un obbligato camminamento nello spazio, l’ultima opera Treasure simula una preziosità che non è data dai materiali, ma solo dal loro aspetto: la lucentezza delle palline da paintball (celebre gioco caratterizzato da una certa violenza) così come gli sgargianti ricami del tappeto attirano l'attenzione, ma la loro apparenza contraddice la loro vera natura. La ricerca non ha avuto l'esito che ci si aspettava, il tesoro non è stato trovato: lo spettatore allora, un po' deluso, forse si riconoscerà nel testo del manoscritto all'entrata, probabilmente tratto dal diario di viaggio di un esploratore che l'ha preceduto e che è stato altrettanto sfortunato; o forse, rifacendosi a una bella frase di Mike Kelley, la considererà “una specie di favola sull'essere un artista, sull'inseguire qualcosa che non si potrà mai raggiungere'”.
Superato il corridoio (nel quale si può assistere alla proiezione di Tekkonkinkreet, il cartone animato da cui il titolo della mostra è stato tratto) lo spettatore si trova di fronte alla prima opera: una massiccia e misteriosa struttura la cui natura non viene -e non sarà- rivelata. La seconda installazione, anch'essa totemica, fronteggia la prima e si caratterizza per l'apparente leggerezza del materiale e per la presenza di un'immagine, di difficile interpretazione, ottenuta attraverso la sgranatura dei pixel e la cancellazione di alcuni codici: una ''memoria visiva'' che richiama alla mente qualcosa di con
Locata sopra il palco della sala e raggiungibile solo dopo aver compiuto un obbligato camminamento nello spazio, l’ultima opera Treasure simula una preziosità che non è data dai materiali, ma solo dal loro aspetto: la lucentezza delle palline da paintball (celebre gioco caratterizzato da una certa violenza) così come gli sgargianti ricami del tappeto attirano l'attenzione, ma la loro apparenza contraddice la loro vera natura. La ricerca non ha avuto l'esito che ci si aspettava, il tesoro non è stato trovato: lo spettatore allora, un po' deluso, forse si riconoscerà nel testo del manoscritto all'entrata, probabilmente tratto dal diario di viaggio di un esploratore che l'ha preceduto e che è stato altrettanto sfortunato; o forse, rifacendosi a una bella frase di Mike Kelley, la considererà “una specie di favola sull'essere un artista, sull'inseguire qualcosa che non si potrà mai raggiungere'”.
LUCA LORETI { I AM THE ARTIST }
Milano 06.11.2014
Intervista di Gianmaria Biancuzzi
Ho incontrato Luca Loreti in occasione dellʼapertura della sua prima mostra personale “I Am The Artist” al Rocket di Milano. La mostra presenta unʼinstallazione che nasce dalla metafora musicale per parlarci dellʼartista visivo, passando per Joe Strummer, I Ramones e Ke$ha; unʼarchitettura complessa costellata di rimandi, opposizioni stridenti e tanta voglia di fare.
GB: Questo nuovo lavoro evidenzia una particolare attenzione al mondo musicale. Da un lato, c'è una chiara tendenza a parlare del mondo dell'arte, e della delicata posizione sociale dell'artista, dall'altro sembra uno scontro impari tra gruppi punk e popstars. Come hai iniziato a incorporare tutto questo nel tuo lavoro?
LL: C'è molta ironia nel lavoro. La scelta delle popstars e del genere punk riguarda me stesso e un po' tutti quanti, sono due facce di una stessa medaglia. Non posso far finta di non aver mai ascoltato Ke$ha o Katy Perry. Mi rendo conto che le sfumature tra gli opposti sono importanti. Per questo è fondamentale il documentario The future is unwritten (2007), che verrà proiettato in sala, perché Joe Strummer è il musicista che più incarna tutto questo, ha lottato tutta la vita con umiltà per la sua integrità morale, fatta principalmente di opposti.
GB: Il tuo lavoro, attraverso gesti, elementi e materiali apparentemente molto semplici, racconta una raffinata complessità di livelli percettivi ed estetici. In qualche modo sembra l'intreccio tra vite individuali e narrative storiche più ampie. Hai iniziato con un approccio autobiografico?
LL: Il lavoro è un'opera unica, un'installazione che riflette molto dei miei lavori precedenti. Ho cercato di organizzare coerentemente la mia personalità in una serie di lavori che dialogassero tra loro. Sono uno specchio di tutto il lavoro precedente. Quando mi è stato proposto di partecipare con una mostra personale, ho trovato subito interessante confrontarmi con questo spazio così particolare, anche per la situazione che si verrà a creare tra me e il pubblico di questa serata. C'è molto di me stesso nel lavoro. Io mi sento un punk, canto in un gruppo punk ed è sempre stato il mio genere musicale, credo che questa sia un po' la mia 'presa di posizione' sul luogo e su quello che sono davvero. Il punk nasce dall'idea che chiunque può prendere in braccio uno strumento musicale e mettere su un gruppo, le popstars invece nascono dal talento, prendiamo ad esempio X-Factor, su 60.000 concorrenti solo 1 ce la fa, questa è la legge della musica, il punk dice che su 60.000 persone possono nascere 60.000 gruppi, la trovo un'opposizione divertente, e molto in linea con la mostra in generale. Però ho scelto la metafora musicale perché mi sembra un passo inevitabile quando si parla del ruolo dell'artista, e in più perché durante la serata verrà suonata musica elettronica, creando un ulteriore livello interpretativo.
GB: 'Tutti sono artisti', 'ognuno è un artista' insegnava Beuys durante la sua collaborazione con l'Accademia di Belle Arti a Düsseldorf, suggerendo che esattamente come la vita, l'arte è fatta di azioni. L'aspetto performativo del tuo lavoro, la giacca che indosserai durante la mostra, realizzata con luci LED e con la scritta “I am the artist”, sembra negare tutto questo. È vero?
LL: Non puoi delegare tutto allo strumento, oggi i media ti fanno credere che tutti sono artisti, quando in realtà chi vuole essere artista sono io, affrontando i pro e i contro necessari. Tutti noi ci crediamo artisti, ma allo stesso tempo abbiamo una figura di riferimento, un artista. Un aspetto che mi interessa particolarmente è la dualità tra l'artista-santone e tutti coloro che si sentono creativi e vogliono diventare "artisti". È il sistema dell'arte che definisce l'artista, fatto da critici, artisti, appassionati e dal mercato. Fare l'artista è una professione. Io sono così coglione da dirmi da solo che sono un artista. Scrivendomelo con i LED sulla giacca, divento un super artista e sono così figo da essere nessuno.
GB: Tu sei un artista visivo che parla del rapporto problematico tra varie tipologie d'artista. Puoi parlarci di questo legame tra artista e pubblico e cosa possiamo imparare da esso?
LL: Le problematiche dell'artista visivo e del musicista sono molto simili. Entrambi vengono definiti "artista" e hanno la medesima responsabilità. Sia dal punto di vista delle arti visive che da quello dell'ambiente musicale, l'artista prende una posizione e deve fare i conti con il pubblico. Questo è molto serio. Il messaggio – il dover dire qualcosa – è il punto di congiunzione tra i due ambiti. Quando scegli di dire qualcosa, hai la responsabilità di doverlo dire e ti trovi di fronte a due possibili sorti. Una è quella di diventare una guida per gli altri, un papa, e continuare, anche se in una condizione troppo auratica, a fare arte; l'altra è quella di incontrare persone che ti dicono che sarebbero stati capaci di fare la stessa cosa. Per questo, durante la mostra, ho deciso di consegnare gli adesivi. È come dare la possibilità a tutti di essere artisti. Gli opposti sono sempre molto banali, in particolare in questo discorso, mi sembra non portino a niente. Per questo io mi definisco da solo artista, perché neanche la serata me lo riconoscerà. È molto ridicolo andare in giro con questa scritta, soprattutto per chi come me, cerca di fare l'artista seriamente, e questo penso che si vedrà.
GB: Nel tuo lavoro è possibile intravedere sovrapposizioni di molti ambiti: musica, arti visive, performance, provocazione, cultura popolare. Come determini ciò che vale la pena investigare? Cosa significa incorporare nel tuo lavoro elementi che mutano costantemente nel gusto popolare e nel giudizio?
LL: Io mi soffermo sulle cose che mi fanno pensare. A quel punto mi domando, in un processo quasi inconscio, se la stessa cosa che ha fatto pensare me può far pensare tutti gli altri. Io mi sento molto un antropologo. In ogni mio lavoro, cerco di far scaturire nel pubblico lo stesso tipo di suggestione, ma non la stessa risposta alla mia domanda, il tutto con una buona dose di divertimento. Tendo a considerare centrali i particolari, che spesso diventano pretesti universali. Poi ci sono aspetti più formali, in particolar modo scultorei, dell'installazione che non sono per niente casuali e non vanno sottovalutati. Il lavoro nel lavoro è creare un altro micro sistema. Per quello non ho voluto presentare lavori vecchi, ma ho voluto creare un'opera appositamente concepita per il luogo che la ospita. Da questo ne deriveranno infinite interpretazioni valide.
GB: Il rapporto che crei tra i lavori in mostra, il luogo che li ospita, te stesso e il pubblico può diventare molto intenso: ti aspetti una reazione specifica?
LL: In realtà no. Proprio per l'aspetto performativo del lavoro non saprei cosa aspettarmi. Spero che la mostra piaccia molto al pubblico, più che altro spero di riuscire a controllare la performance come l'ho immaginata.
GB: Questo nuovo lavoro evidenzia una particolare attenzione al mondo musicale. Da un lato, c'è una chiara tendenza a parlare del mondo dell'arte, e della delicata posizione sociale dell'artista, dall'altro sembra uno scontro impari tra gruppi punk e popstars. Come hai iniziato a incorporare tutto questo nel tuo lavoro?
LL: C'è molta ironia nel lavoro. La scelta delle popstars e del genere punk riguarda me stesso e un po' tutti quanti, sono due facce di una stessa medaglia. Non posso far finta di non aver mai ascoltato Ke$ha o Katy Perry. Mi rendo conto che le sfumature tra gli opposti sono importanti. Per questo è fondamentale il documentario The future is unwritten (2007), che verrà proiettato in sala, perché Joe Strummer è il musicista che più incarna tutto questo, ha lottato tutta la vita con umiltà per la sua integrità morale, fatta principalmente di opposti.
GB: Il tuo lavoro, attraverso gesti, elementi e materiali apparentemente molto semplici, racconta una raffinata complessità di livelli percettivi ed estetici. In qualche modo sembra l'intreccio tra vite individuali e narrative storiche più ampie. Hai iniziato con un approccio autobiografico?
LL: Il lavoro è un'opera unica, un'installazione che riflette molto dei miei lavori precedenti. Ho cercato di organizzare coerentemente la mia personalità in una serie di lavori che dialogassero tra loro. Sono uno specchio di tutto il lavoro precedente. Quando mi è stato proposto di partecipare con una mostra personale, ho trovato subito interessante confrontarmi con questo spazio così particolare, anche per la situazione che si verrà a creare tra me e il pubblico di questa serata. C'è molto di me stesso nel lavoro. Io mi sento un punk, canto in un gruppo punk ed è sempre stato il mio genere musicale, credo che questa sia un po' la mia 'presa di posizione' sul luogo e su quello che sono davvero. Il punk nasce dall'idea che chiunque può prendere in braccio uno strumento musicale e mettere su un gruppo, le popstars invece nascono dal talento, prendiamo ad esempio X-Factor, su 60.000 concorrenti solo 1 ce la fa, questa è la legge della musica, il punk dice che su 60.000 persone possono nascere 60.000 gruppi, la trovo un'opposizione divertente, e molto in linea con la mostra in generale. Però ho scelto la metafora musicale perché mi sembra un passo inevitabile quando si parla del ruolo dell'artista, e in più perché durante la serata verrà suonata musica elettronica, creando un ulteriore livello interpretativo.
GB: 'Tutti sono artisti', 'ognuno è un artista' insegnava Beuys durante la sua collaborazione con l'Accademia di Belle Arti a Düsseldorf, suggerendo che esattamente come la vita, l'arte è fatta di azioni. L'aspetto performativo del tuo lavoro, la giacca che indosserai durante la mostra, realizzata con luci LED e con la scritta “I am the artist”, sembra negare tutto questo. È vero?
LL: Non puoi delegare tutto allo strumento, oggi i media ti fanno credere che tutti sono artisti, quando in realtà chi vuole essere artista sono io, affrontando i pro e i contro necessari. Tutti noi ci crediamo artisti, ma allo stesso tempo abbiamo una figura di riferimento, un artista. Un aspetto che mi interessa particolarmente è la dualità tra l'artista-santone e tutti coloro che si sentono creativi e vogliono diventare "artisti". È il sistema dell'arte che definisce l'artista, fatto da critici, artisti, appassionati e dal mercato. Fare l'artista è una professione. Io sono così coglione da dirmi da solo che sono un artista. Scrivendomelo con i LED sulla giacca, divento un super artista e sono così figo da essere nessuno.
GB: Tu sei un artista visivo che parla del rapporto problematico tra varie tipologie d'artista. Puoi parlarci di questo legame tra artista e pubblico e cosa possiamo imparare da esso?
LL: Le problematiche dell'artista visivo e del musicista sono molto simili. Entrambi vengono definiti "artista" e hanno la medesima responsabilità. Sia dal punto di vista delle arti visive che da quello dell'ambiente musicale, l'artista prende una posizione e deve fare i conti con il pubblico. Questo è molto serio. Il messaggio – il dover dire qualcosa – è il punto di congiunzione tra i due ambiti. Quando scegli di dire qualcosa, hai la responsabilità di doverlo dire e ti trovi di fronte a due possibili sorti. Una è quella di diventare una guida per gli altri, un papa, e continuare, anche se in una condizione troppo auratica, a fare arte; l'altra è quella di incontrare persone che ti dicono che sarebbero stati capaci di fare la stessa cosa. Per questo, durante la mostra, ho deciso di consegnare gli adesivi. È come dare la possibilità a tutti di essere artisti. Gli opposti sono sempre molto banali, in particolare in questo discorso, mi sembra non portino a niente. Per questo io mi definisco da solo artista, perché neanche la serata me lo riconoscerà. È molto ridicolo andare in giro con questa scritta, soprattutto per chi come me, cerca di fare l'artista seriamente, e questo penso che si vedrà.
GB: Nel tuo lavoro è possibile intravedere sovrapposizioni di molti ambiti: musica, arti visive, performance, provocazione, cultura popolare. Come determini ciò che vale la pena investigare? Cosa significa incorporare nel tuo lavoro elementi che mutano costantemente nel gusto popolare e nel giudizio?
LL: Io mi soffermo sulle cose che mi fanno pensare. A quel punto mi domando, in un processo quasi inconscio, se la stessa cosa che ha fatto pensare me può far pensare tutti gli altri. Io mi sento molto un antropologo. In ogni mio lavoro, cerco di far scaturire nel pubblico lo stesso tipo di suggestione, ma non la stessa risposta alla mia domanda, il tutto con una buona dose di divertimento. Tendo a considerare centrali i particolari, che spesso diventano pretesti universali. Poi ci sono aspetti più formali, in particolar modo scultorei, dell'installazione che non sono per niente casuali e non vanno sottovalutati. Il lavoro nel lavoro è creare un altro micro sistema. Per quello non ho voluto presentare lavori vecchi, ma ho voluto creare un'opera appositamente concepita per il luogo che la ospita. Da questo ne deriveranno infinite interpretazioni valide.
GB: Il rapporto che crei tra i lavori in mostra, il luogo che li ospita, te stesso e il pubblico può diventare molto intenso: ti aspetti una reazione specifica?
LL: In realtà no. Proprio per l'aspetto performativo del lavoro non saprei cosa aspettarmi. Spero che la mostra piaccia molto al pubblico, più che altro spero di riuscire a controllare la performance come l'ho immaginata.
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